URBINO, DOVE IL TEMPO E’ SOSPESO

Quest’anno abbiamo deciso di non andare in Francia, per gli ovvi motivi legati al COVID. Penso quasi ogni giorno alla Provenza, al nostro piccolo villaggio laggiù, ad Avignone e ad Arles con un desiderio infinito di riviverle al più presto, di farmi abbracciare da esse. E così abbiamo trascorso le nostre vacanze fra Umbria e Marche e visitato borghi e città di una bellezza fuori dal tempo. Più di tutte, Urbino. Ahime, non l’avevo ancora visitata e non credo sia stato un caso. Mio padre vi si recava ogni anno in inverno sin da quando ero adolescente. Ha avuto laggiù un paio di buoni amici con cui condividere le sue passioni, amici che come lui, sono volati via. E, con una certa commozione, quest’anno finalmente, l’ho incontrata anch’io questa città in cui il tempo è sospeso. Negli anni papà mi aveva raccontato molto di lei e dei suoi abitanti. Della cultura, della storia, dell’arte, della cucina con Sua altezza il tartufo (che lui adorava e che io non amo), delle tradizioni, della sua gente. Quindi ci sono arrivata preparata, e le mie aspettative non sono rimaste deluse, in una mattina assolata e calda oltre ogni limite. Urbino, dal basso, appare superba e silenziosa. Un’apparenza di immobilità che mi ha colpita. E mentre salivamo attraversando la Porta Lavagine ci chiedevamo se fosse completamente disabitata. Da ragazza avrei voluto frequentare l’Università proprio a Urbino: corso di laurea in Antropologia Culturale. Tuttavia, cambiai idea quando realizzai che per fare un buon percorso di formazione mi sarei dovuta recare in Paesi in cui, io “della classe media dagli intestini delicati", citando Clarissa Pinkola Estes in "Donne che corrono con i lupi", non sarei riuscita ad adattami (a sopravvivere?) alle spesso dure condizioni ambientali e il mio intestino sarebbe impazzito, colonizzato da chissà quali virus e parassiti. Così scelsi un’altra strada. Mio marito, conoscendomi così bene, sorride sempre, sornione e divertito, ogni volta che lo racconto, all’idea di me “spersa" in chissà quale continente, senza un bagno che possa chiamarsi tale, mangiando cibi e bevendo acque già abbondantemente “abitate”. Ma tornando ad Urbino: dopo una salita tesa che ci ha fatto sentire quanto fossimo, e siamo, fuori allenamento, finalmente siamo arrivati in una piazza bella e animata da abitanti e turisti il cui vociare dal basso non si percepiva minimamente. Abbiamo camminato salendo sino ad arrivare a Palazzo Ducale che visto a mezzodì, con quella particolare luce del sole, toglie il respiro per tanta beltà. Ecco, lì mi sono fermata, ci siamo seduti sui sedili di pietra lungo il muro del Palazzo stesso. E ci siamo guardati intorno, un vento piacevolissimo ci ha ritemprati. Purtroppo, non ci è stato possibile vedere la mostra su Raffaello: la coda era infinita e le restrizioni anti-Covid avrebbero ulteriormente allungato i tempi di attesa. Pace, mi sono detta. Da lì, non avevo nessuna intenzione di muovermi, di arrampicarmi per vie ripide che mi avrebbero tolto respiro ed entusiasmo. Mio marito è andato in esplorazione e io mi sono goduta quella vista spettacolare sulla piazza del Palazzo. Non credo sia passato molto tempo, forse venti minuti?, quando ho sentito un ciuf ciuf di trenino e mio marito riapparire sorridente, dall’altra parte della strada, facendomi cenno di raggiungerlo. Siamo letteralmente saltati sul trenino e partiti alla volta di una visita della città che, davvero, sarebbe stato impossibile fare a piedi. L’audio che ci ha accompagnato era poetico e parlava di quanto ad Urbino ognuno possa ritrovare e riunirsi con la propria anima mentre la bellezza di questa città, di alcuni suoi scorci, dei suoi palazzi, ci ha affascinati. La piccola folla su quel trenino, di cui abbiamo fatto parte, era silenziosamente rapita da ciò che vedeva. Perchè la sensazione era quella di essere tutti scivolati in qualche piega spazio-temporale ed essere ad Urbino in tempi remoti, dove un’antica armonia, ancora percepibile, permeava tutto. Più tardi, siamo stati in una libreria universitaria indipendente molto ben fornita e lì abbiamo acquistato “La vita di Federico da Montefeltro” di Walter Tommasoli un libro del 1978 , difficilmente reperibile e mirabilmente scritto. A quel punto, il tempo ha iniziato a reclamare la propria esistenza, ancora poche ore e saremmo dovuti ripartire per tornare a casa. Abbiamo pranzato in uno dei tanti locali all’aperto, gustando la tipica crescia (una sorta di piadina nel cui impasto vi sono uova e latte) e ogni minuto che ci restava da trascorrere in quella città. Dopo pranzo, facendo una passeggiata, ci siamo imbattuti in una strana scena: proprio alla base dei Torricini, le due torri appuntite simbolo della città, due persone lontane una decina di metri, ciascuna appoggiata al muro, bisbigliavano qualcosa. Un po' folle, vero? E invece no. Abbiamo provato anche noi e, incredibile ma vero, ci sentivamo perfettamente. Anche noi dobbiamo essere sembrati un po' strani agli astanti del momento, tanto che uno di loro, mi ha detto, sorridendo: “Ah pensavo che stesse parlando al citofono con qualcuno… ma qui non ci sono citofoni” “In effetti stavo parlando con mio marito” ho risposto indicandolo a circa dieci metri più in là. L’uomo è rimasto allibito. Gli abbiamo raccontato che questo particolare effetto acustico serviva alle guardie, che da lì dominavano e sorvegliavano la valle sottostante, per comunicare fra loro. Tempo scaduto, dovevamo ripartire per rientrare a casa. Siamo scesi verso la nostra automobile grati per quella giornata che rimarrà sospesa nel tempo, proprio come Urbino.

Marie