La magia di Arles

Arles è una città piena di magia.

Avevo questa sensazione ancora prima di averla vista. Come quando si incontra una persona e, pur non conoscendola ancora, si avverte una sensazione simile all’affetto e ci si stupisce di questo. E’ accaduto all’Università quando ho incontrato quella che sarebbe diventata la mia migliore amica e ho sentito da subito una certa affinità. Il giorno successivo era come se ci conoscessimo da sempre. E a distanza di un paio di decenni ormai, posso affermare che quell’intuizione fosse perfetta. Ecco con Arles è andata proprio così. Io e mio marito siamo spesso in Francia quindi non è stato difficile programmare di uscire dal Luberon e trascorrere qualche giorno e, soprattutto, qualche notte ad Arles. Sì, perché sarebbe stato impensabile non dormire sotto quel cielo stellato dipinto da Van Gogh. Sono molte le cose da vedere in questa cittadina provenzale, a partire dall’anfiteatro romano, maestoso e imponente. Tuttavia per me, per noi, la cifra di questa città è un’altra. No, non è stato il classico percorso turistico ad impressionarci. Ma l’atmosfera, i colori e la luce, quelli sì che sono inusuali, particolarissimi… Ad Arles c’è una luce intensa, chiarissima, che trafigge un cielo terso ed azzurro… eppure intorno al tramonto, essa si ammorbidisce e ci si ritrova a passeggiare lungo l’argine del Rodano avvolti in una luce dai colori caldi che fanno pensare ad un abbraccio e naturalmente i toni della voce si abbassano e le parole si fanno anima. E poi i colori dei negozi, delle facciate delle case, gli odori di cibo che impregnano le narici di una nostalgia forte ed antica… come i piatti corposi e, ahimè, agliati che vengono serviti ai tavoli all’aperto dei ristoranti sempre gremiti di persone, turisti e non, che accolgono con commenti entusiasti l’arrivo dei camerieri con le portate prelibate. C’è il gusto e il piacere di una convivialità a tratti ridanciana e chiassosa e un chiacchericcio che si sente da lontano mentre di sera si passeggia in vicoli silenziosi e deserti che si perdono in intricati labirinti. Gatti, meravigliose creature, ovunque. E quelle vie, strette e tortuose, che scendono o salgono a seconda di come le si percorre non si sa mai dove possano condurre, dall’altra parte della città o esattamente al punto da cui si era partiti. Non ci ha stupiti sapere che questa città misteriosa abbia dato i natali a Nostradamus. Mentre ci è sembrato persino naturale immaginare Vincent Van Gogh camminare pensoso e rapito dalla tavolozza di colori che scorreva davanti ai suoi occhi, come scrisse alla sorella Wilhelmina nell’aprile del 1888. Una sera abbiamo cenato in un ristorante in Place du Forum, luogo in cui il pittore dipinse Cafè le Soir (1888) e in effetti il caffè ritratto è sostanzialmente immutato. Tuttavia il vederlo non è stato emozionante, mancava la poesia dei suoi colori, del suo mondo. Chissà forse l’essenza, lo spirito di Van Gogh è ovunque laggiù, bisognerebbe riuscire a coglierlo nel rumore e nella quiete apparente di Arles dove cose, luoghi, persone, ognuno sembra conoscere la propria parte. E cosi ci siamo evitati il tour dei luoghi ritratti da Van Gogh. E mio marito, sornione, a chiedermi: “Non vorrai vedere dove ha dipinto La nuit étoilée ?… dopo aver rimirato il quadro originale per un tempo… non ricordo quanto”. Io invece ricordo molto bene. Parecchi anni fa a Parigi al Museo D’Orsay: sostai davanti a quel dipinto per un tempo interminabile, non solo perché ne rimasi incantata (malgrado lo immaginassi di una dimensione ragguardevole, che non ha) ma anche perché stavo aspettando mio marito che voleva rivedere con calma i dipinti di Rousseau Il Doganiere ( “cinque minuti e sono di ritorno”, mi disse). Così mi fermai nella stanza numero 72 del Museo talmente a lungo da aver destato il dubbio negli altri visitatori di avere la Sindrome di Stendhal. Ad un certo momento, imbarazzata, mi allontanai e mi recai ad un punto informazioni. D’abitudine non indosso l’orologio e avevamo lasciato entrambi i nostri cellulari nello zaino in guardaroba. Ma di tempo ne era passato, eccome. Ed io ero terribilmente stanca. “Mi scusi signore”, dissi all’addetto “credo di aver perso mio marito”. L’uomo mi guardò, prima perplesso poi con un sorriso ironico. “Sono contento per lei signora”. Avrei tanto voluto un’autoparlante, come al supermercato. Così tornai alla stanza 72. Per un po'. La Nuit étoilée era sempre magnifica da rimirare. E quando la mia pazienza era ormai al limite, partii in quarta decisa a recuperare il marito per rientrare in albergo. Ci siamo incontrati a metà sala. Era di una felicità fanciullesca per aver visto le opere di Rousseau. Morale: mai separarsi dall’amato cellulare. In compenso, ho osservato ogni dettaglio della tela di Van Gogh. Ma alzare lo sguardo in una notte stellata ad Arles è tutta un’altra cosa.
Marie